PENSIERI

I SEGNI DELL'AUTOCOMUNICAZIONE DI DIO

di Giovanni Mazzillo

10.1 Autocomunicazione di Dio e l’esperienza attraverso i suoi segni

L’ultimo capitolo del nostro corso tira le conseguenze di un’affermazione di principio così formulabile: la comunicazione non può fare a meno di un sistema di linguaggio per potersi effettuare. Il sistema di linguaggio include, oltre al messaggio effettivo da comunicare, anche segni che lo trasmettano, veicolandolo da un comunicante all’altro. I segni, che sono per loro natura codificati, devono essere decodificabili ed effettivamente decodificati dal ricevente. Solo a queste condizioni la comunicazione può avvenire.
Ma ciò significa che il sistema dei segni da solo non basta per la comunicazione. Esige, infatti, un insieme di norme atte a codificare e decodificare il messaggio da parte dei comunicanti in gioco. Si tratta di norme che, contestualmente al messaggio e ai comunicanti, devono essere note a tutti ed essere omogeneamente interpretabili ed interpretate. Se ciò non ha luogo, la comunicazione presta il fianco a una serie infinita di equivoci. L’autocomunicazione di Dio avviene allo stesso modo. Il ricorso ai segni comunicativi e alle norme relative alla loro decodifica fanno parte integrante della rivelazione. La rivelazione si esprime, in definitiva, attraverso un sistema di segni e di regole atte ad esprimerli e comprenderli.
I segni qui in questione non possono contraddire le caratteristiche dell’autocomunicazione e devono quindi rispondere ai requisiti già considerati, in merito alla dialogalità, la storicità e l’ecclesialità. Ma rimandano, altresì, all’esperienza in quanto condizione previa per poterli cogliere, per poterli aprire e per poterli intendere.
Intanto, restando nell’ambito della comunicazione, questa premessa sembrerebbe già scontata in partenza. Non presenterebbe nessun problema se si trattasse di soggetti comunicanti posti sullo stesso livello. I problemi invece affiorano appena si consideri la natura del soggetto rivelante e quella del soggetto recettivo dell’autocomunicazione, la realtà di Dio e quella dell’uomo. La struttura differenziale/similare di tale comunicazione nasce dal fatto che il rivelante è Dio stesso, che s’immerge, per così dire, nell’umano, abilitando il suo interlocutore a comunicare con lui, e tuttavia rimane se stesso e quindi sostanzialmente diverso da ciò che è solo e semplicemente umano.
In altre parole, perché la comunicazione tra la trascendenza e l’esperienza umana avvenga, Dio abilita l’esperienza umana non solo ad aprirsi alla trascendenza, ma anche a coglierne il messaggio senza restarne bruciata. Ci possono aiutare alcuni esempi presi dalla fisica elettrica. Paragonando Dio e l’uomo a due conduttori elettrici, ciò che succede tra questi due soggetti (Dio e l’uomo) è diverso da ciò che succederebbe tra i conduttori, perché Dio, soggetto divino, non “brucia” il soggetto umano, come succederebbe collegando il conduttore ad alta tensione con un conduttore inadeguato. Nello stesso tempo Dio non “si riduce” di potenza, nel senso che la trascendenza non diviene immanenza nell’esperienza, azzerando lo scarto differenziale tra i due soggetti, come succederebbe nel caso di una riduzione dell’alta tensione attraverso un trasformatore elettrico. La realtà è che la trascendenza resta e deve restare tale, pur toccando, senza annientarla, l’umana esperienza.
Lo scarto differenziale del quale parliamo non viene nemmeno colmato da una pura e semplice elevazione di potenza dell’esperienza. Anche in questo caso si risolverebbe il problema, ma non ci sarebbe più la comunicazione di Dio all’uomo, perché l’uomo non sarebbe più tale. Come uscire allora dall’aporia di tale eccedenza comunicazionale, salvaguardando la differenza e la comunicazione nello stesso tempo? Posto in questi termini, il problema può essere risolto a livello dottrinale, ricorrendo alla sintesi che la cristologia opera tra trascendenza e immanenza, nella persona di Cristo, supremo comunicatore, perché strumento primo ed ultimo dell’incontro di tutti gli incontri: quello di Dio e dell’uomo nella storia. In termini più generali, il problema può trovare indicazioni per una sua soluzione partendo dalla considerazione che l’esperienza umana è già costitutivamente e strutturalmente “imparentata” con la trascendenza, perché ne porta le tracce, provenendo da essa ed essendo destinata ad essa dalla stessa trascendenza.
In quest’impostazione complessiva, che coglie la trascendenza nell’apertura trascendentale dell’esperienza, si potrà accettare anche l’idea che la comunicazione avvenga senza produrre corti circuiti. Ma ciò implica anche essere teoricamente attrezzati per cogliere la singolare modalità di quei segni che accompagnano la rivelazione della Parola di Dio e di questa costituiscono la parte storica e l’inveramento fattuale. Si tratta dei segni che testimoniano non solo la trascendenza, com’è dell’esperienza trascendentale, ma anche il suo farsi storia ed evento. Segnalano, infatti, la trascendenza nelle “opere” di Dio. Si tratta di opere compiute, preannunciate o scritte, qui riassumibili sotto tre voci: il miracolo, la profezia e l’ispirazione.

10.2 IL MIRACOLO
10.2.1 Segno di salvezza e di rivelazione

Non si può adeguatamente parlare del miracolo al di fuori del sistema comunicativo trascendenza/immanenza fin qui abbozzato. L’alternativa infatti sarebbe di ridurlo a un evento portentoso che produce effetti singolari, così sbalorditivi sul piano psicologico, da costringere l’uomo ad ammettere che in quel caso c’è un agire “soprannaturale”: l’agire di Dio. Tale concezione si ritrova nell’apologetica tradizionale, ma risulta oggi del tutto insufficiente, perché pone il miracolo al di fuori del complesso relativo alla comunicazione, così importante per la rivelazione.
Parlando dei miracoli nel Nuovo Testamento, K. Rahner scriveva, invece, a ragione:
«Le cose non stanno come se, in linea di principio, qualsiasi prodigio - per il fatto che proviene solo da Dio - possa testimoniare qualsiasi verità o realtà, nel senso che basterebbe che tale realtà esista e che il Dio operatore di prodigi si limiti ad aggiungerle qualche miracolo. Nel Nuovo Testamento il miracolo è un semeion, un segno, cioè la manifestazione dell’azione salvifica di Dio stesso, un momento che fa parte di questa stessa azione salvifica, è la manifestazione di questa nell’afferrabilità storica, in un certo senso lo strato più esterno in cui l’azione salvifica rivelatrice di Dio raggiunge la dimensione della nostra esperienza corporea» .
Ciò che Rahner sosteneva è il contesto rivelativo-salvifico del miracolo e la sua afferrabilità nella storia attraverso l’esperienza umana. Senza questo carattere simbolico ed espressivo, che ne costituisce la sua dimensione “semiologica”, il miracolo non solo non troverebbe posto nella realtà comunicativo e rivelante dell’agire salvifico di Dio, ma sarebbe molto problematico anche per la sua stessa definibilità filosofica e scientifica.
Infatti alcune concezioni tradizionali del miracolo non sono sostenibili. Ritenere, ad esempio, con la Scolastica, che il miracolo sia fondamentalmente la sospensione momentanea di una legge di natura per intervento di Dio significa far arretrare la sua definizione anche rispetto a Tommaso ed Agostino . Il secondo, infatti, che fino a pochi anni della sua morte, affermava che non ci fossero più miracoli nella chiesa, ne accettò poi l’esistenza, ammettendo che il funzionamento della natura è un miracolo, anche se la continua ripetizione di ciò che in essa avviene ne attutisce l’impatto portentoso, svilendo tale continuo miracolo a qualcosa di comune . Il miracolo della natura avviene quotidianamente per la presenza delle “ragioni seminali”, semi invisibili immessi da Dio nel creato, oltre ai quali esistono i “semi dei semi”, le forze che il Creatore ha loro conferito perché la terra generasse gli animali, i mari i pesci e l’aria i volatili. Sono forze sempre presenti, ma la cui efficacia può essere prodotta solo dall’intervento diretto di Dio .
La conclusione è per Agostino che il miracolo è “tutto quello che essendo difficile e non abituale, supera l’attesa e il potere dello spettatore che si stupisce” . Ma, in questo modo, la sua prospettiva risulta principalmente psicologica, perché fa leva ancora sulle reazioni suscitate nell’uomo, anche se non manca una contestualità più generale che è quella della presenza delle ragioni seminali prime, che giustificano i vari portenti. Tuttavia, sarà anche da annotare che in Agostino non manca il carattere simbolico del miracolo, perché esso esprime nell’ordine materiale realtà sovrasensibili e spirituali.
Tommaso d’Aquino mostrava, invece, un interesse più spiccatamente ontologico. Privilegiando l’approfondimento della causa sui motivi psicologici e finali visti in Agostino, Tommaso parlava dei miracoli come di fatti che vanno al di là dell’ordine della natura e che sono provocati direttamente da Dio. Ciò non esclude nel suo pensiero altri aspetti teologici importanti, che sono, soprattutto in riferimento ai miracoli di Gesù, manifestazione della sua realtà divina e dell’amore salvifico di Dio. Sono pertanto segni di una manifestazione che culmina nel miracolo più grande mai verificatosi: l’incarnazione del Verbo. In questo contesto, i miracoli sono atti di salvezza, perché guariscono dal peccato, dalle malattie e da tutto ciò che è nocivo all’uomo .
Queste precisazioni contengono effettivamente in Tommaso elementi teologici che si possono riferire a quegli aspetti oggi chiamati simbolici e intenzionali del miracolo, perché ne evidenziano l’intenzionalità salvifica di Dio e l’espressività semiologica. Questi ultimi mancano però del tutto nella Scolastica, tutta protesa ad affermare l’esclusivo valore metafisico della causalità divina, una preoccupazione che si riscontra anche nei manuali precedenti il Concilio.
Un effettivo rinnovamento della teologia del miracolo è tentato, ancor prima del Concilio, da M. Blondel. Questi, pur non negando la realtà fisica del miracolo, ne mette in luce il valore rivelatorio e quello intenzionale e simbolico, mostrando non già la causalità prima del suo agente, ma la bontà paterna di Dio che si serve dei miracoli per operare la salvezza tra gli uomini .
Il Concilio Vaticano II recepisce tutta la ricchezza teologica del miracolo fin qui evidenziata e opera una sintesi tra l’aspetto ontologico (relativo alla causa), del resto presente già nel Vaticano I (D 3009), quello intenzionale (riguardante la sua carica salvifica) e quello simbolico (che è espressivo di una realtà trascendente). Il Vaticano II pone pertanto in stretta relazione, come si è già visto, la Parola e i fatti storici, le opere di Dio e la sua volontà salvifica, la sua autocomunicazione e l’efficacia che essa ha nel mondo e nella storia. Una sintesi particolarmente felice si trova a proposito dell’agire di Gesù. Il concilio infatti scrive, a riguardo:
«Perciò egli [il Cristo], vedendo il quale si vede anche il Padre (cf. Gv 14,9), col fatto stesso della presenza e manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti e, infine, con l’invio dello Spirito di verità, porta a perfetto compimento la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina, cioè manifestando che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e per risuscitarci alla vita eterna ».

10.2.2 Problemi di epistemologia del miracolo

La prospettiva conciliare è quella teologicamente più corretta, perché è l’unica che non incorre nei gravi problemi epistemologici sollevati dalla definizione fisicista del miracolo. Definire infatti il miracolo solo come un segno fisico, al di sopra delle leggi della natura, solleva diversi problemi. Il primo riguarda la definizione delle “leggi di natura”. Se per Tommaso la natura è anche l’esperienza che di essa fa l’uomo, ai nostri giorni sono divenute molto problematiche le “leggi della natura”. Non è del tutto chiaro nemmeno il concetto di “natura”, anche perché l’uomo non ha finito, né finirà mai di esplorarla e di capirla adeguatamente. Ciò vale a maggior ragione per le “leggi della natura”, alcune delle quali sono state scoperte solo recentemente, mentre su altre permangono non pochi dubbi. L’esperienza storica e scientifica dimostrano ogni giorno di più che ciò che un tempo si riteneva “legge naturale”, e quindi immodificabile, tale in effetti non era, per il semplice fatto che è risultato modificabile da variabili precedentemente ritenute impossibili o impreviste.
Le acquisizioni della fisica quantistica e dell’evoluzione, la scoperta delle interazioni tra teorie scientifiche e ambiti culturali complessivi e, per finire, i nuovi criteri di scientificità, sui quali il dibattito è tutt’altro che chiuso, dimostrano la insostenibilità della definizione del miracolo come semplice e pura sospensione delle leggi della natura. Non nel senso, si badi bene, che Dio non possa effettivamente sospendere tali leggi, andando praeter naturam (oltre la natura) o perfino contra naturam (contro la natura), secondo le definizioni care alla Scolastica, ma nel senso che noi non sappiamo esattamente non solo quali siano le leggi della natura, ma non sappiamo nemmeno come effettivamente Dio operi nel mondo e nella storia. Ne sappiamo il fatto, ma ne ignoriamo il modo.
La definizione del miracolo non può basarsi nemmeno sul carattere di frattura o discontinuità nel cosmo, per potersi affermare come tale, perché il segno miracoloso rimanda sempre non tanto alla frattura in sé, ma all’agente di tale frattura e, soprattutto, al valore e al significato di ciò che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, appare come frattura, ma che non è detto che dovrà indispensabilmente rimanere tale. L’intervento di Dio è ugualmente da ritenersi storico e valido anche quando, come dimostra l’esegesi biblica in non pochi casi ritenuti precedentemente miracolosi, si dimostrasse che alcuni interventi di Dio non sono andati né oltre, né contro la natura, ma hanno utilizzato circostanze particolarmente favorevoli della stessa natura.
A ben considerare le cose, nella tradizionale visione fisicista del miracolo, è inoltre problematica, come nota Rahner, la separazione tra ciò che è di ordine inferiore e ciò che è di ordine superiore, nel senso che l’ordine superiore (il pensiero, la libertà e ogni attività spirituale) non esige incondizionatamente la rottura dall’ordine inferiore (la corporeità, le leggi biochimiche, la fisicità del corpo e del mondo). A questo proposito scrive l’autore:
«Di conseguenza il mondo del materiale e del biologico può diventare la manifestazione dello spirito storico come momento intrinseco di questo; l’inferiore mondo materiale e biologico, per sua intima essenza e a motivo della sua indeterminatezza e ulteriore determinabilità, può venire integrato nell’ordine superiore senza perdere attraverso tale integrazione le proprie leggi. Per es. quando l’uomo pone in atto la propria ‘spiritualità corporea’ (leibhaftige Geistigkeit), non è mai semplicemente un animale, senza che per questo [...] le leggi della biochimica, della biologia in generale o del comportamento animale vadano eliminate o sospese in un senso puramente negativo» .

10.2.3 Il miracolo svela la nostra vera realtà

Tutto ciò ci porta a ribadire l’unità antropologica tra elemento spirituale e biochimico, da una parte, e la non derivabilità dello spirituale dall’elemento fisico o biologico, dall’altra. Nonostante ciò, si può concludere che se l’artefice di tutto ciò che esiste (dell’antropologico e del cosmologico, considerati unitariamente) è il Dio dell’autocomunicazione, nel miracolo si manifesta la profondità dell’uomo e della realtà in genere, la sua dimensione di mistero creata, evocata e pertanto proclamata dall’intervento di Dio.
Per queste ragioni, riteniamo che il miracolo sia la manifestazione di ciò che, anche se ci è ancora sconosciuto, non può essere vissuto come imprecisata, eppure incombente minaccia, né solo e semplicemente come stupore di fronte all’ignoto. Infatti per chi è aperto alla fede l’ignoto non può atterrire, dal momento che quando si viene a contatto con esso, si viene a contatto con ciò che noi siamo. L’uomo viene a contatto con la sua “natura”, non nel senso immanentista di una trascendenza diluita nell’immanenza, ma nel senso creaturale e incarnatorio di una trascendenza che lo chiama alla sua vera destinazione finale e attesta che le sue origini sono in Dio . In questo modo, il miracolo è un atto comunicativo di Dio, che anziché “annientare” la natura, ne mostra la sua profondità più vera, consentendole di dispiegarne, in qualche maniera la sua gloria.
Ciò consente il recupero del valore originario del miracolo come segno (semeion) nel contesto della rivelazione e come segno della presenza di Dio fra di noi e pertanto nella storia umana. I vangeli non si stancano di esprimere il senso di stupore e di gratitudine che coglie quanti riconoscono la presenza di Dio e del suo regno in questo nostro mondo e nella nostra storia. Gesù, miracolo vivente e più alto di tale comunicazione di Dio, diventata presenza visibile e palpabile, richiama continuamente i suoi interlocutori a non ignorare proprio questo fatto, ma ad accettarlo agendo di conseguenza: “Se scaccio i demoni con il dito di Dio, è giunto in mezzo a voi il regno di Dio» (Lc 11,10).
In definitiva, il miracolo è punto d’incontro della trascendenza con l’immanenza umana. Non è segno di magia, ma è l’atto con il quale la trascendenza soccorre l’esperienza umana, perciò è segno che accompagna la rivelazione, nel cui contesto ha tutto il valore. È, infatti, manifestazione dell’amore di Dio. Né mancano esempi a riguardo. Sicché ci sono miracoli ove si opera la salvezza fisica, la guarigione, un miglioramento della situazione umana e miracoli, che pur recando un danno apparente all’uomo, hanno una funzione di salvezza o per l’interessato, o per gli altri.

10.2.4 La struttura fondamentale del miracolo

La struttura del miracolo è riassumibile, in conclusione, secondo queste dimensioni. Il miracolo è un atto evocativo ed appellativo. Il miracolo mette l’uomo in comunicazione con Dio nell’evocare la sua dimensione, la sua natura più profonda. Diventa appello esplicito da Dio rivolto alla singola esistenza, perché la dispone al dialogo e la prepara all’ascolto della sua Parola. È ciò che da alcuni viene chiamata “funzione preparatrice” del miracolo . Sostanzialmente, significa risvegliare nell’uomo il ricordo delle proprie radici e la nostalgia per la propria destinazione finale. Come tale, il miracolo è manifestazione dell’amore di Dio, che arriva a comunicare in modo diretto e personale con il singolo uomo o con la sua comunità.
In questa linea sono da leggere non pochi interventi di Dio a favore del suo popolo o a favore dei suoi servi nell’Antico Testamento. Ne sono esempi più che evidenti i segni compiuti per la liberazione di Israele dalle mani del Faraone (Es 7,14s), la conduzione dello stesso popolo (Es 14,21), l’attraversamento del Mar Rosso (Es 15,23ss) e in genere tutti i “miracoli” compiuti per esso . L’amore premuroso di Dio appare inoltre nei suoi interventi atti a sfamare e dissetare il popolo errante nel deserto (Es 15,23; 16,4ss; Nm 11,31ss; 20,11; Sap 11,4ss) o a guarirlo quando è decimato dai morsi dei serpenti velenosi (Nm 21,9).
Dio si prende cura dei suoi profeti, che nutre, come nel caso di Elia (1Re 17,6; 19,5) o libera da morte sicura, come nel caso di Daniele salvato dai leoni (Dn 6,21.-23) o che salva nel caso di Giona messo al sicuro dal cetaceo (Gn 2,1ss). Ma ha a cuore anche la sorte di una povera vedova (1Re 17,14) o di chi, come Susanna, è ingiustamente accusata (Dn 13,42-59).
Non si tratta solo di atti provvidenziali di Dio, ma di segni effettivi del suo amore per gli uomini. In questa stessa ottica sono da vedere gli interventi di Gesù, che, nel Nuovo Testamento, muovono da un suo moto di commozione e di esplicita solidarietà per il popolo sbandato (Mc 6,34; 8,1-3), per persone come la vedova di Naim (Lc 7,13) o i malati e i sofferenti in genere .
La struttura evocativa ed appellativa del miracolo esprime, in definitiva, l’amore che si autocomunica come tale, non solo con la Parola, ma anche con gesti o concrete opere d’amore da parte di Dio. Con tali segni Dio chiama gli uomini a partecipare al circuito del suo amore. A questa funzione intenzionale e appellativa si accompagna talora nei miracoli una funzione che è detta testimoniale o giuridica. In questo caso i miracoli vogliono essere una conferma dell’opera di Dio e sono segni che presuppongono la fede o la rafforzano oppure la predispongono.
Il Nuovo Testamento esprime questa realtà in vari modi. Parla di una “forza” (dynamis) di Dio che risiede in Gesù (Mt 5,30) . Le opere di Gesù confermano che egli è “colui che deve venire” (Lc 7,22; At 2,22; 10,38) e che egli viene da Dio (Gv 3,2; 9,33). La funzione testimoniale dei miracoli non è chiaramente di natura meramente giuridica. Essa va sempre unita a tutto ciò che si è detto del carattere simbolico e rivelativo dello stesso miracolo. Ciò significa che l’agire di Dio non fa mai violenza alla libertà umana, per cui rimarrà sempre una polivalenza del miracolo e l’ambiguità del segno.
Il miracolo infatti rimanda a una realtà più grande, cioè alla infinita bontà e alla onnipotenza di Dio, ma rimanda anche alla liberazione completa verso la quale aspira l’intera creazione (Rm 8,18-25). È la liberazione che Gesù, con i suoi segni, ha dimostrato essere reale ed efficace e riguarda tutto l’uomo, in tutte le sue dimensioni. Egli infatti ha liberato l’uomo dal peccato in tutte le sue forme, da quella intima e personale a quella fisica e sociale, come dimostrano interventi quali la guarigione del paralitico (Mc 82,1-12) e quella dell’indemoniato geraseno (Mc 5,1-20). L’elemento escatologico costituisce, in conclusione, una stretta unità con quello simbolico e liberante dell’agire di Dio e dell’agire di Gesù in ogni segno compiuto come autocomunicazione dell’amore.
10.3 I segni comunicativi della Parola: profezia e ispirazione
Di solito la trattazione dei segni della rivelazione si conclude con quella del miracolo. Ciò è senza dubbio dovuto all’impostazione dell’apologetica classica, la quale vedeva in esso il riscontro oggettivo e reale della rivelazione. La natura prevalentemente, se non esclusivamente, testimoniale che si attribuiva al miracolo, considerato come un argomento cogente dell’autenticità di Dio, non faceva prendere in considerazione come segni ulteriori di rivelazione la profezia e l’ispirazione. Oppure ne mostrava una certa analogia con il miracolo, solo perché le collegava all’infallibilità di Dio e pertanto le riteneva realtà storicamente ed apologeticamente riscontrabili.
A noi sembra, invece, che sia possibile cogliere anche nella profezia e nell’ispirazione quella compresenza dell’elemento escatologico ed incarnatorio della rivelazione, che abbiamo visto contraddistinguere ogni opera di Dio. In entrambe si rende presente la stessa volontà salvifica e comunicativa di Dio che abbiamo già considerato nella rivelazione come insieme di “parole ed eventi”. Entrambe manifestano, ancora più chiaramente del miracolo, che tale struttura di base della rivelazione è presente in ogni atto comunicativo con il quale Dio si mette in contatto con l’uomo.
Secondo il modello dell’apologetica tradizionale la profezia e l’ispirazione sarebbero, come il miracolo, riscontri fattuali di ciò che Dio ha detto altrove e in altro modo con la sua parola. A noi sembra che in un sistema comunicativo, qual è quello in cui ci siamo mossi, ciò non lo sia più sostenibile. Il miracolo infatti non affianca e conferma soltanto la parola, venendo a dimostrare l’autenticità di Dio che parla, ma è, esso stesso, strumento di comunicazione e quindi o contiene la parola (come nel caso delle teofanie) o è fondamentalmente segno di comunicazione e quindi linguaggio e, in sostanza, anche parola.
Ma ciò diventa ancora più evidente nel caso della profezia e dell’ispirazione, nelle quali il legame tra parola ed evento è diretto ed intuitivo. Qui, infatti, gli avvenimenti sono interpretati e descritti, seppure attraverso il modo di esprimersi ed il linguaggio dell’uomo, dalla stessa Parola di Dio. Negli altri segni si ricorreva alla parola per spiegare illustrare e finalizzare gli eventi, qui è invece la stessa Parola di Dio che legge e giudica, anticipa e salva. È la parola profetica della profezia e la parola scritta dell’ispirazione.
La profezia è quel particolare intervento di Dio attraverso l’osservazione, il discernimento e l’agire del profeta, che, come abbiamo già visto, coglie un senso di rivelazione e di comunicazione divina nello svolgersi dei fatti storici reali e delle loro connessioni, al di là delle stesse costanti storiche . Con la profezia emerge il senso della storia salvifica nel senso talora discontinuo, contraddittorio e perfino disperato della storia del mondo. Il tempo presente è letto in trasparenza, sicché in esso finalmente si coglie la realtà più piena e più vera verso la quale cammina ogni tempo. In sintonia con una nozione biblica non quantitativa e cosmologica, ma qualitativa e ascensionale del tempo, il profeta giudica gli aspetti positivi e i germogli salvifici presenti nella storia. Legge i “segni dei tempi” ed invita, di volta in volta, al ravvedimento, alla costanza e a coltivare l’utopia anche in periodi difficili e persino tragici. Egli coltiva la speranza, perché grazie all’intervento di Dio, tiene uniti presente e futuro, così come il miracolo unisce trascendenza e immanenza. La profezia coglie questi legami e li addita agli uomini sazi o stanchi del momento storico in cui essi vivono. Essa testimonia l’eccedenza di grazia e di gratuità, in un epoca storica divenuta calcolatrice e piatta, e invita a guardare sempre oltre gli orizzonti provvisori della storia.
L’ispirazione presenta molte analogie con la dimensione teologica della profezia . È la rivelazione di una realtà trascendente in un senso letterario. Contiene significati che vanno al di là del normale dinamismo umano pensiero/scrittura e del rapporto parola/senso. In questo modo, l’ispirazione viene a suturare sul piano della scrittura ciò che la profezia congiungeva sul piano della lettura e dell’interpretazione degli avvenimenti. Incarna in un sistema comunicativo letterario ciò che il miracolo operava in una vicenda particolare ed immediata.
In questo senso, se l’ispirazione è effetto e segno dell’autocomunicazione di Dio, si dovrà ritenere Dio “autore” della Bibbia, secondo l’insegnamento abituale della chiesa, dal Concilio di Trento al Vaticano I e al Vaticano II. Nella Dei Verbum si rinviene un passaggio che sintetizza la dottrina relativa alla ispirazione in questi termini:
« la santa madre chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, essendo scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo (cf. Gv 20,31; 2Tm 3,16; 2Pt 1,19-21; 3,15-16), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla chiesa» (DV 11).
L’ispirazione indica, pertanto, un fenomeno teologico molto complesso, la cui definizione non è avvenuta senza travaglio nella storia della chiesa. Ciò che è stato discusso riguarda la natura e la modalità di quel particolare impulso esercitato da Dio sull’intelletto e la volontà dell’agiografo, affinché fosse comunicato fedelmente quanto egli voleva comunicare per la salvezza del suo popolo. Le spiegazioni che sono state avanzate si collocano in un ventaglio molto ampio che si allarga tra due estremi, la concezione “mantica” e quella dell’”assistenza negativa”. Con la prima si viene, in realtà, a ridurre il fenomeno dell’ispirazione a una sorta di possessione da parte di Dio sulle facoltà spirituali dell’agiografo, al punto che questi sarebbe privato dell’esercizio di ogni responsabilità e coscienza diretta. Diventerebbe strumento passivo e semplice canale dell’autocomunicazione di Dio, sì da riprodurre solo ciò che Dio, nelle forme e modalità da lui volute, intende comunicare.
Con la seconda concezione si indica un’assistenza particolare di Dio verso l’agiografo, simile a quella con la quale egli interviene nel caso delle definizioni dogmatiche. Dio impedirebbe, con questo suo intervento, che l’agiografo comunichi delle affermazioni erronee. Non sfuggirà che mentre la prima posizione concedeva troppo all’intervento diretto di Dio, la seconda concede troppo poco. In modo inversamente proporzionato, si concedeva troppo poco oppure troppo all’agiografo. Nel corso della maturazione teologica ecclesiale sulla rivelazione queste due posizioni sono state entrambe respinte.
Rientrano nel primo caso la teoria di Filone, in ambito giudaico-ellenista e quella del Montanismo nell’ambito cristiano. In entrambe l’attività umana viene del tutto annullata. La comunicazione procede in modo quasi meccanico da Dio al destinatario senza alcuna possibilità né di collaborazione né di intervento da parte dell’agiografo. L’altro caso, riguardante l’assistenza passiva, abbraccia anche la teoria di J. Jahn, agli inizi del secolo XIX secolo, che minimizza l’attività di Dio e il suo influsso sull’agiografo, fino a sminuire gravemente il ruolo dello stesso soggetto comunicante principale, che è Dio.
La successiva riflessione antropologica e teologica ha messo invece in luce il carattere dinamico e interagente dell’agiografico nel processo attraverso il quale Dio si autocomunica all’uomo. Dio rimane, e non potrebbe essere diversamente, causa principale, soggetto principale dell’autocomunicazione. L’agiografo è causa strumentale, ovvero, agente secondario della comunicazione di Dio. Ciò significa che la fedeltà alla comunicazione di Dio non annulla, né sminuisce la personalità e lo strumentario dell’agiografo, ma avviene secondo modalità strumentali che non possono essere che dinamiche.
Se nella teologia classica, infatti, la causa strumentale era vista in maniera passiva, oggi si è affermata l’idea che, trattandosi dell’uomo, questi non può non essere che uno strumento dinamico. È un soggetto che interagisce con il soggetto principale della comunicazione e “riferendo” in piena fedeltà ciò che Dio intende comunicare, lo fa però alla maniera di chi storicamente, biograficamente, linguisticamente, e, in generale, culturalmente, è da tutto ciò condizionato. La sua complessità esistenziale e psicologica, quella storica ed ambientale non sono messe tra parentesi, ma interagiscono con l’intero processo dell’autocomunicazione di Dio, sicché il messaggio viene trasmesso in un modo e non in un altro.
In tutto ciò resta naturalmente fermo il principio che Dio è autore della Scrittura, perché egli rimane effettivamente soggetto primo, principale e insostituibile della sua autocomunicazione, ma tutto ciò ci riporta al cuore del nostro problema: il valore del segno in quanto strumento della rivelazione. Qui riscontriamo tutta l’affinità esistente tra il valore del miracolo, della profezia e dell’ispirazione. Infatti, a partire da questa affinità, sul piano della comunicazione trascendente di Dio nell’immanenza dei fatti, non sarà difficile cogliere la profonda unità che lega queste realtà come segni dell’autocomunicazione dell’amore. È quell’amore trascendente che diventa carne e scende nella storia, svelando il mistero nascosto eppure reale della nostra natura umana e della nostra storia.