IL SILENZIO DI DIO
di Giacomo Coccolini
«Il silenzio, più della parola, rimane
la sostanza e il segno di ciò che fu il
loro universo e, come la parola,
il silenzio s'impone e chiede di essere
trasmesso».
Wiesel, Al sorgere delle stelle
Da più parti, nel mondo laico
come in quello credente, sembra essere sempre più avvertita l'esigenza
di ascoltare parole non consunte dal tempo o dalle mode - una
sorta di viatico capace in quest'ora di confusione di confortare
le coscienze e mostrare vie alternative a questo disagio che
sta squassando ogni cosa.
[1]
Finita l'epoca delle sintesi falsamente risolutive,
in cui le contraddizioni potevano essere consegnate ad un futuro
che le avrebbe finalmente redente, l'uomo è rinviato al suo cuore
- il centro di ogni battaglia - là dove «ognuno conduce da solo
e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo
cambia» [Jünger]. Questo è il momento in cui bisogna fermarsi
a pensare, per cercare di capire la situazione in cui ci muoviamo,
dove i sentimenti del mostruoso e del terribile si confondono
con l'angoscia di chi sembra non aver più nulla da sperare.
Ma esiste ancora qualcosa
in cui il cuore dell'uomo può restare saldo e, lì, consistere?
E' possibile per l'uomo ascoltare ancora una parola di salvezza?
L'uomo è ancora capace di tanto? Oppure è Dio che tace, Lui,
«la sottile voce di silenzio», come ha affermato il rabbino
Benedetteo Carucci Viterbi riprendendo un significativo midrash
[2]
sul libro dell'Esodo (cap. 15, 11) - che di fronte
ad Auschwitz è sembrato rintanarsi in un mutismo più assordante
di tutti i silenzi?
La teologia e la filosofia,
così come molta della letteratura contemporanea, si sono soffermati
- quasi piegati davanti a quell'irredimibile Golgota che è Auschwitz
[3]
- a riflettere sullo scandalo proveniente dal silenzio
di Dio e da quello che, con sguardo tragicamente premonitore,
Martin Buber ebbe a chiamare l'eclissi di Dio: «L'ora in cui viviamo
è caratterizzata dall'oscuramento della luce celeste, dall'eclissi
di Dio»
[4]
.
Tale sentimento, anche in
riferimento ad avvenimenti della storia passata e recente del
popolo ebraico, è stato elevato a condizione normale di un'epoca
sprofondata in un'immane crisi di valori che ha cominciato a sperimentare
su di sè il nichilismo più estremo. Nietzsche, Dostoevskij,
Heidegger, Kafka, Celan, Wiesel, insieme a moltissimi altri sismografi
dello spirito, si sono fatti testimoni eloquenti di una condizione
di povertà e «spaesamento metafisico» che, nell'investire la
civiltà dalle fondamenta, ha comportato, come effetto-boomerang,
una sorta di nostalgia del divino.
[5]
Allo stesso tempo, però, ha cominciato ad essere posta
la domanda, trasformatasi poi in grido e invocazione [H.M.Woschitz],
se questo silenzio di Dio non sia in verità il suo modo particolarissimo
di comunicare con l'uomo e se, dal punto di vista biblico, almeno
per ciò che riguarda l'Antico Testamento, il rapporto tra 'silenzio
di Dio' e 'parola di Dio' sia più dialettico di quanto non sembri
a prima vista e, quindi, più misterioso, di modo che credente
e non credente vengono messi radicalmente in questione non
solo dalla parola di Dio ma soprattutto dal silenzio di Dio
[6]
.
E' stato André Neher ne L'esilio
della parola
[7]
ad affermare che «il silenzio costituisce il paesaggio
della Bibbia» dove il Signore non può essere conosciuto faccia
a faccia ma solo da dietro, a terga: «Io farò passare davanti
a te tutta la mia bontà [...] ma tu non potrai vede la mia faccia,
perchè un uomo non può vedere me e vivere [...] Quando passerà
la mia gloria, io ti porrò nella cavità della roccia, ti coprirò
con la mia mano. Poi ritirerò la mia mano e mi vedrai da dietro,
ma non potrai vedere la mia faccia» (Es. 33, 18-23). "Dio"
designa quindi «il Luogo dove tutto si spiega - ha affermato
Stefano Levi Della Torre - e, contemporaneamente, il luogo dell'inesplicabile.
Dio diventa in un certo senso un ossimoro: è l'insplicabile dove
tutto si spiega»; è una «dimensione paradossale».
[8]
Questo modo di interrogare
la Bibbia, per cui l'«instabilità dell'immagine divina» diventa
la nota caratteristica di Dio, pur nella molteplicità delle tradizioni
culturali a cui ci si può richiamare, evidenzia una gamma particolarmente
ampia di possibilità da parte dell'uomo di parlare di Dio (teo-logein).
Paolo De Benedetti, nel suo Intervento alla Cattedra dei non-credenti
[9]
, così come nel suo testo Ciò che tarda avverrà da
poco pubblicato
[10]
, ha richiamato l'attenzione, a partire dal testo
biblico, sull'impossibilità di costruire una teologia consolatoria
«dopo Auschwitz». «Il chiedere conto a Dio è come un filo rosso
o un filo nero che percorre tutta la tradizione ebraica: da Giobbe
a Qohelet fino ai processi a Dio nella tradizione e nella leggenda
chassidica».
[11]
Proprio per questo bisogna, a suo parere, desistere
dal parlare con troppa sicurezza di Dio: potremmo mentire su
di Lui e, affermando cose che fanno parte delle nostre modalità
rappresentative, farci un Dio a nostra immagine e somiglianza
(Es. 32). Il mondo biblico scagliandosi contro l'idolatria e contro
un sacralismo esasperato, predilige un'immagine simbolica del
volto di Dio: «Il Dio della Bibbia si rivela sostanzialmente
come il Simbolo per eccellenza, cioè come colui che unisce in
sè i poli estremi, i perfetti contrari e tutta al gamma intermedia
delle colorazioni dell'essere. Nell'infinito divino avviene una
"sim-bolica" coincidentia oppositorum».
[12]
Dio resta più grande dell'orizzonte di questo mondo
- ha detto Bruno Forte - «anche quando per un atto gratuito della
sua libertà, e dunque per amore, si autocomunica al cuore umano
entrando nella storia. [...] Re-velare viene pertanto a dire l'atto
del passaggio dal velato allo scoperto, lo svelamento del precedentemente
nascosto, ma non esclude mai del tutto una reduplicazione, un
permanere del velo, anzi un suo infittirsi mediante la ripetizione,
proprio nell'atto in cui sembra che venga tolto (analogamente
si potrebbe dire del significato originario di apokalúpto, toglimento
della copertura, che non esclude un rinforzarsi di essa)».
[13]
Ma questa simbolicità tipicamente biblica del volto
di Dio non richiama forse la necessità di una teologia negativa?
Non diventa necessaria - come ha mostrato nella sua insonne ricerca
Italo Mancini - una «logica dei doppi pensieri», riprendendo
così quanto Dionigi l'Areopagita nella Teologia mistica (III,
1033 C) aveva riconosciuto, e cioè che di fronte all'incognito
di Dio ogni discorso umano diventa ,
muto?
[14]
Termimi quali dolore messianico e impotenza di Dio,
così ampiamente ripresi da larga parte della teologia e della
filosofia contemporanea (basti pensare a Dietrich Bonhoeffer e
alla sua lettura 'non religiosa' della Bibbia e ad Hans Jonas
con la sua ricerca di un nuovo "concetto di Dio dopo Auschwitz"),
hanno permesso di ritrovare nella figura di Dio non tanto una
risposta esaustiva ad ogni domanda umana quanto, piuttosto, un
«interlocutore delle domande di senso» e in special modo un interlocutore
di tutte quelle domande che vivono lo scandalo della sofferenza
inutile.
[15]
Di fronte a questa che se ne sta conficcata nella
realtà come una sorta di 'iattura' senza redenzione, un autore
come Dostoevskij ha potuto affermare che essa, proprio a causa
della sua irredimibilità, esprimerebbe il fallimento della creazione,
l'assurdità del mondo e, di conseguenza, la non-accettazione
di un Dio simile. E' nei Fratelli Karamazov, nella figura di Ivan,
che erompe tutto lo scandalo di questa sofferenza, sperimentata
soprattutto dagli idioti e dai bambini. Essa, restando senza
senso, risulta incompatibile con l'esistenza stessa di un Dio
giusto. Ivan - ha scritto Pareyson - «è disposto ad ammettere
il carattere trionfale ed esaltante dell'armonia finale, in cui
non rimarrà nulla d'ingiustificato e d'incomprensibile per la
mente umana, e ogni contrasto sarà eliminato fra gli uomini,
tutti ugualmente redenti e redenti dal male, riscattati dal dolore,
liberati dal bisogno e saziati dalla sete di giustizia»
[16]
; ma di fronte alla sofferenza dei bambini l'utopia
di una riconciliazione finale finisce in pezzi. Non solo Dostoevskij
ha riflettuto su tale immane questione ma Albert Camus ne L'uomo
in rivolta, Reinhold Schneider in Winter in Wien e Elie Wiesel
ne La notte - per non ricordare che tre dei nomi più eminenti
- potrebbero porsi come testimoni privilegiati di queste domande
espresse de profundis.
Il silenzio di Dio davanti
alla sofferenza inutile diventa quindi lo spazio attraverso cui
l'uomo viene interrogandosi, la possibilità, sperimentata in
mezzo alla vita, dicendole sì ogni momento - per riprendere un'immagine
cara a Bonhoeffer - di chiedere a Dio di rispondere finalmente
alle nostre domande; e questo perchè «l'alleanza, come la coscienza
ebraica ha sempre creduto con ostinata fede, comporta obblichi
bilaterali, da parte cioè dell'uomo e di Dio. [...] L'esistenza
del dolore ingiusto "salva" Dio solo se c'è un tempo
o un luogo (parole estremamente improprie per la vita del mondo
che verrà) in cui egli si spieghi e ci spieghi. La bontà del mondo
è una moneta ormai troppo svalutata; la responsabilità dell'uomo
o la finitezza degli esseri sono semplici rinvii all'interno
del triste mistero. Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore
di una spiegazione: per questo crediamo in lui e nella vita futura.
[...] Non ci sono parole utili, finchè non parlerà lui» [corsivo
nostro].
[17]
Il compito dell'uomo resta invece quello di cercare,
insonnemente cercare, «nella flebile voce che rimbomba» [B. Carucci
Viterbi], il messaggio di Dio che continua a parlare all'uomo
che abita il proprio tempo. Questo Dio non si rivela nel frastuono,
nè nelle voci assordanti del mondo, così come non si rivela
in ciò che molto spesso adoriamo - quegli idoli che «hanno bocca
e non parlano, hanno occhi e non vedono» (Sal. 115, 5). Il silenzio
di Dio non resta solo un'enigma che lo studio dell'uomo dovrà
prima o poi sciogliere - come afferma la tradizione rabbinica
- ma rimanda all'evento del silenzio di Dio Padre che sulla
croce, abbandonando il Figlio, risuona nel grido: «Dio mio,
Dio mio, perchè mi hai abbandonato?» (Mat. 27, 46). In quell'abbandono
- come ha detto von Balthasar - è presente l'icona di Dio che
sulla croce si infrange in una non-forma, ma «nonostante tutto
non è infranta, perchè proprio nell'infrangersi mondano rivela,
in modo univocamente non-dialettico, l'infrangibilità dell'amore
divino».
[18]
Solo così questo silenzio impotente può diventare
il luogo della redenzione - la voce più assordante di tutte le
voci - in cui possono risuonare gli alta silentia di Dio e l'umanità
presente ritrova, intatta, l'icona di ogni grido e di ogni invocazione.
[1]
. Basterebbe leggere la sintesi del 26 Rapporto
su La situazione sociale del Paese 1992 in Censis. Note e commenti
10-12 (1992).
[2]
. Il termine Midrash deriva dal termine ebraico
darash (ricercare, sondare, interpretare) ed è «il tentativo
- così ha scritto G.
Stenberger [Il Midrash. Uso rabbinico della Bibbia. Introduzione,
testi, commenti, Dehoniane, Bologna 1992, p. 8] - di penetrare
più profondamente nel linguaggio della rivelazione. (...) Ponendosi
con cura all'ascolto del testo, prestando attenzione anche
ai minimi dettagli linguistici, si cerca di sondare le profondità
della rivelazione, di sperimentare la continua presenza di
Dio, di convincersi della solidità delle sue promesse». Il testo
di Benedetto Carucci
Viterbi, Una sottile voce di silenzio è contenuto nel
volume Chi è come te fra i muti? L'uomo di fronte al silenzio
di Dio, lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini,
Garzanti, Milano 1993, pp. 75-84 [VI sessione della Cattedra
dei non-credenti]. Il termine «voce di silenzio sottile» per
designare l'impercettibilità di Dio è preso da I Re 19, 12.
[3]
. E' stato X.Tilliette
[La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1992,
pp. 101-102] a riprendere la questione del rapporto tra la filosofia
e la sofferenza assoluta sperimentata ad Auschwitz riprendendo
la domanda fatta da Adorno ne La dialettica negativa:
«Si può filosofare dopo Auschwitz?». Per Tilliette, «tra un
Prima colmo di premonizioni e un Dopo tormentato da paure, la
filosofia ha vacillato sotto il colpo dell'olocausto, non si
è più rimessa dallo shock, il malheur l'ha stregata, è entrata
nella sua fase critica, se si mantiene all'espressione la sua
ambiguità». Cfr. J. Kohn/J.B.Metz, Auschwitz in Dizionario delle questioni religiose del nostro tempo, Queriniana,
Brescia 1992, pp. 42-46 e C.Thoma,
Olocausto in Lessico dell'incontro ebraico-cristiano,
Queriniana, Brescia 1992, pp. 171-174. Ultimamente
E. Wiesel - J.M.Lustiger - R. Süssmuth - W. Bartoszewski,
Per non dimenticare Auschwitz, Piemme, Milano 1993.
[4]
. M.
Buber, L'eclissi di Dio. Considerazioni
sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1992.
[5]
. Sulla questione ultimamente è intervenuto
J. Imbach, Nostalgia
di Dio, Studium, Roma 1992. Bisogna però notare che gli effetti
di tale condizione di disincanto si sono fatti sentire nel bene
come nel male. Basterebbe considerare il fenomeno del fondamentalismo
- tema che in questi ultimi anni è diventato centrale per la
comprensione dell'orizzonte tardo-modermo - dal punto di vista
di un tentativo di compensazione nei confronti di una realtà
'scarica' di Assoluto. Per un primo approccio al problema cfr.
E. Pace, Il regime
della verità. Il fondamentalismo religioso contemporaneo, Il
Mulino, Bologna 1990 e il n. 4(1991) di Sette e Religioni dedicato
a Il fondamentalismo di matrice cristiana.
[6]
. La fenomenologia del typos del credente
e del non credente, così come la loro reciproca dialettica,
sono stati ripresi da un punto di vista biblico, pur se con
intenzioni diverse, nella relazione di E.
Bianchi, L'incredulità del credente, pp. 95- 104 e nell'intervento
di M. Cacciari, pp. 105-109 in Chi è come
te fra i muti? su cui torneremo. Sul tema del silenzio e della
parola si possono vedere utilmente M. Baldini e S. Zucal (a cura di),
Le forme del silenzio e della parola, Morcelliana, Brescia
1989 e Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, Morcelliana, Brescia 1990.
[7]
. L'edizione francese originale è del 1970
ma in Italia è stato tradotto dalla Marietti, Casale Monferrato
1983. Il sottotitolo del libro suona: Dal silenzio biblico al
silenzio di Auschwitz.
[8]
. Pp. 21. Il testo di S.
Levi Della Torre, Forse [in Chi è come te fra i muti?,
pp. 18-32] si interroga sul 'luogo' occupato dall'uomo che
vive «tra» due versanti del divino che gli si manifestano e
che, contemporaneamente, possono caratterizzare due modalità
di 'visione' del divino qualitativamente differenti: l'una,
rappresentata dalla possibilità da parte dell'uomo-Mosè di
vedere Dio da dietro; l'altra, rappresentata dall'impossibilità
da parte dell'uomo-Mosè di vedere Dio in faccia: «Dunque un
lato visibile, un ditro-verso noi; e una parte invisibile -
la faccia: due versanti del divino, verso di noi e verso di
Lui: rivelazione e inaccessibilità» (p. 22).
Un altro filosofo ebraico contemporaneo - E. Levinas
- parlerà della possibilità da parte dell'uomo di cogliere solo
le tracce di Dio.
[9]
. In Chi è come te fra i muti?, pp.33-41.
[10]
. Edizioni Qiqajon, Magnano 1992. Per una
nota sulla teologia di De Benedetti cfr. I. Bertoletti, Tra domande dell'attesa
e interpretazione della Legge. Una nota sulla teo-logia di Paolo
De Benedetti in Humanitas, 1 (1993) pp. 127-131
[11]
. P.
De Benedetti, Intervento in Chi è come te fra i
muti?, p. 38.
[12]
. G.
Ravasi, I volti di Dio nella Bibbia in I volti di Dio.
Il Rivelato e le sue tradizioni, a cura di E. Guerriero e A.
Tarzia, Paoline, Milano 1992, pp. 59-68, cit. p. 65.
[13]
. B.
Forte, Gli «alta silentia» e l'autocomunicarsi di Dio:
silenzio, parola, incontro. Un dialogo teologico con hegel,
Schelling e Barth in L'ombra di Dio. L'ineffabile e i suoi nomi,
a cura di E. Guerriro e A. Tarzia, Paoline, Milano 1991, pp.
103-125, cit. p. 119.
[14]
. I.
Mancini, Doxa. Debolezza e forza di Dio in L'ombra di
Dio, pp. 141-183. Sulla 'logica dei doppi pensieri' Mancini
è intervenuto in Teologia e filosofia. Per una logica della
fede in Scritti cristiani, Marietti, Genova 1991, pp. 13-28.
[15]
. Sulla questione cf.
L. Pareyson, La sofferenza
inutile in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed
esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, pp. 170-217.
[16]
. Così L.
Pareyson, La sofferenza inutile, p. 185. Scrive Dostoevskij ne I fratelli Karamazov [Vol. I, Milano, p.
313]: «Non vale, essa [cioè, la suprema armonia] le povere lacrime
foss'anche di quel bambino solo, che straziato si batteva col
minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con
le sue lacrime irriscattabili il "buon Gesù"! Non
vale, perchè queste piccole lacrime rimarranno irriscattate,
altrimenti non potrebbe sussitere l'armonia. Ma in che modo,
in che modo vorresti mai riscattarle? Ti pare una cosa possibile?
Forse col dire che saranno vendicate? »
[17]
. P.
De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, pp. 11-113.
[18]
. H.
Urs von Balthasar, Il Linguaggio di Dio in Homo creatus
est, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 271-302, cit. p. 295.
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