Ho scelto di inserire
in appendice, e quindi sotto condizione, quei
passi nei quali tradizionalmente molti commentatori
scorgono espliciti o impliciti riferimenti a Gesù
di Nazareth e ai Cristiani. Per secoli, Ebrei
e Cristiani, convinti dell’impossibilità che la
tradizione rabbinica avesse tralasciato di lasciare
qualche testimonianza su Gesù, hanno estrapolato
dagli scritti uno svariato numero di passi, e
li hanno collegati al Cristianesimo nascente,
sempre senza tenere sufficiente conto del contesto
e della tradizione testuale.
Il risultato di questa attività è
la pubblicazione di numerose raccolte di detti
rabbinici su Gesù e il Cristianesimo.
Che alcuni passi del Talmud e
della Misnah, così come ci sono pervenuti,
contengano passi ostili a Cristo e alla sua Chiesa,
è indubbio; ma il problema sta nello stabilire
il momento in cui tali passi furono introdotti
nel testo, o furono modificati in senso anticristiano.
In realtà, le prime testimonianze manoscritte
complete risalgono all’alto medioevo, ed i frammenti
o le citazioni più antiche ci mostrano una tradizione
testuale molteplice, ampiamente uniformata in
epoca altomedievale e ancor di più con l’avvento
della stampa.
Un diverso approccio ai testi è stato
inaugurato dagli studi di Johann Maier; egli ha preso in esame tutti quei
passi in cui tradizionalmente si sono viste allusioni
cristiane, dimostrando come pochissimi di quei
passi reggano ad un’indagine critica. “Per il
giudaismo il cristianesimo fu in un primo tempo
un fenomeno marginale tra altri; più tardi, il
cristianesimo innalzato a religione di stato fu
a tal punto visto come la prosecuzione di «Roma»,
che elementi specificamente cristiani non vennero
nemmeno percepiti in quanto tali. Le affermazioni
anticristiane contenute nei testi rabbinici riposano
su interpolazioni e rielaborazioni posteriori,
e sono quindi da considerarsi come fonti per la
conoscenza dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo
non nell’antichità bensì nel primo medioevo”.
Quindi, resta accertata la presenza
di passi anticristiani nella letteratura rabbinica;
ma è dubbio il momento storico in cui furono inseriti.
A buon diritto, quindi, ho scelto si inserirne
alcuni in appendice, in quanto la loro origine
antica, e quindi il loro valore storico di testimonianze
dei primi secoli dell’era cristiana, sono stati
messi in dubbio dai succitati studi.
Il Talmud babilonese ci riporta questo
racconto (tra parentesi quadre le parole contenute
solo in alcuni manoscritti):
“Viene tramandato: [al venerdì] alla
sera della Parasceve si appese Ješu [ha-nôserî
= il cristiano]. Un araldo per quaranta giorni
uscì davanti a lui: «Egli [Ješu ha-nôserî]
esce per essere lapidato, perché ha praticato
la magia e ha sobillato e deviato Israele. Chiunque
conosca qualcosa a sua discolpa, venga e l’arrechi
per lui». Ma non trovarono per lui alcuna discolpa,
e lo appesero [al venerdì] alla sera della Parasceve.
Disse Ulla: «Credi tu che egli [Ješu
ha-nôserî] sia stato uno per il quale
si sarebbe potuto attendere una discolpa? Egli
fu invece un istigatore all’idolatria, e il Misericordioso
ha detto «Tu non devi avere misericordia e coprire
la sua colpa!». Con Ješu fu diverso, perché egli
stava vicino al regno” (Sanhedrin B, 43b).
La spiegazione tradizionale è la
seguente: il passo si riferisce a Gesù, del
quale viene anche ricordato con precisione il
giorno di esecuzione. L’accenno all’araldo che
per quaranta giorni rimanda l’esecuzione di Gesù,
è una risposta dell’apologetica ebraica al racconto
cristiano della passione, che ci descrive invece
un processo frettoloso e privo di testimoni. Il
verbo “appendere” al posto di “crocifiggere” non
è un problema, perché riscontrabile anche nel
Nuovo Testamento (At. 10,39; Gal. 3,13) e in Giuseppe
Flavio. La divergenza tra la dichiarazione “esce
per essere lapidato” e la successiva morte di
croce, è forse un modo per far concordare la verità
della crocifissione con l’idea di un processo
interamente ebraico.
L’analisi opposta, invece, preferisce
riferire il passo ad un’altra persona, che solo
casualmente fu prima lapidata e poi appesa alla
Parasceve; egli aveva cinque discepoli (di cui
si parla più avanti), tutti lapidati come lui;
la frase “con Ješu fu diverso, perché egli stava
vicino al regno” significa che quest’uomo era
un collaborazionista romano.
Un’altra frase del rabbi Abbahu (Palestina,
III-IV sec.) è stata vista come una condanna di
Cristo:
“Se qualcuno ti dice: «Io sono Dio»,
egli è un mentitore; «Io sono il figlio dell’uomo»,
alla fine dovrà pentirsene; «Io ascenderò al cielo»,
egli ha detto questo, ma non lo compirà” (Ta‘anit
J, 2,1).
La frase si adatta bene a Gesù ma
anche ad altri uomini che secondo la testimonianza
di Celso in Fenicia e Palestina si attribuivano
tali qualità divine (Origene, Contra Celsum
VII,9). Invece, secondo altri, si tratta della
descrizione stereotipata di un dominatore arrogante.
Un altro passo in cui compare il
nome di Gesù, è conservato nel Talmud babilonese
(‘Aboda Zara 16b); ne abbiamo però altre due recensioni
abbastanza differenti (Tosefta Hullin 2,24 e Midrash
Qohelet Rabba 1,1.8). Si tratta di un racconto
di rabbi Eli‘ezer ben Hyrkanos (I-II sec.).
Tosefta
Hullin
“Mentre
una volta passeggiavo lungo la strada
di Sepphoris, trovai Giacomo, un uomo
di Kfar Siknin, e mi disse una parola
di eresia in nome di Ješûa‘ ben Pntjrj: |
Midrash
Qohelet Rabba
“Io,
una volta, andavo lungo la strada di
Sepphoris. Mi venne incontro un uomo
e Giacomo da Kfar Siknaja era il suo
nome. Egli mi disse una parola in nome
di Ješû ben Pndr’ e questa parola
mi ha fatto piacere: |
‘Aboda
Zara
“Io,
una volta, passeggiavo sulla strada
superiore di Sepphoris, e trovai un
uomo dei discepoli di Ješu ha-nôserî
e Giacomo da Kfar Siknaja era il suo
nome. Egli mi disse: |
[Continuando con la sola recensione
babilonese:]
«Sta scritto nella vostra Torà: Tu
non devi portare il prezzo del meretricio e del
cane nella casa del Signore Dio tuo [Deut.
23,19]. Si può dunque fare una latrina per il
sommo sacerdote?»
Ma io gli risposi di no.
Egli mi disse: «Così mi ha insegnato
Ješu ha-nôserî: Dal prezzo del meretricio
è raccolto, al prezzo del meretricio deve tornare
[Mic. 1,17]. Dal luogo della sporcizia sono
venuti, al luogo della sporcizia devono tornare».
E la cosa mi piacque, e per questo
sono stato arrestato, per eresia”.
Per chi vi vede un passo cristiano,
siamo di fronte ad un detto di Gesù riportato
da una fonte rabbinica, che richiama la sua lotta
all’osservanza pedissequa e letterale della legge
giudaica. E la condanna del rabbi Eli‘ezer, è
una condanna del pensiero cristiano. La questione
dell’uso del denaro ottenuto col peccato che non
può essere impiegato nel Tempio (qui chiamato
“casa del Signore”) richiama alla mente la questione
dei trenta denari di Giuda (Mt. 27,6-7).
Si è pensato che questo passo si
riferisca certo a Gesù, ma che il suo logion
sia stato inventato dai Giudei per screditarlo; per altri, invece, il passo originariamente
non aveva nulla a che fare con Gesù, ma la confusione
sarebbe frutto di una maldestra interpolazione
medievale. La mescolanza tra Ješûa‘ ben Pntjrj
(Pantera?), Ješû ben Pndr’ (Pandera?) e Ješu ha-nôserî
(il cristiano), lo studio del contesto e della
trasmissione del testo, rivelerebbero un improprio
accostamento a Gesù.
Esistono numerose citazioni rabbiniche
di un certo Ješûa‘ ben Pandera o Panteri/Pantera‘;
il fatto che fonti non ebraiche (Celso) parlassero
di un certo Gesù figlio di Panther fa pensare
alla stessa persona (corruzione del greco parthénos,
vergine, o nome di soldato romano?). Secondo Maier,
però, tale interpretazione è errata. Ben Pandera
era un mago ricordato nella tradizione palestinese,
come anche Ben Stada: queste figure vennero poi
confuse con Gesù, poi chiamato ha-nôserî,
e i passi attribuiti erroneamente a lui. Ma in
realtà, questo avvenne molto più tardi.
Di notevole importanza un testo dello
Šemônê ‘esre (le Diciotto benedizioni),
che apriva la celebrazione sinagogale. Non ci
è pervenuto un testo originario, ma diverse redazioni,
una delle quali (quella di un frammento della
Genizah del Cairo) ci conserva esplicita menzione
dei cristiani (o “nazareni”) all’interno della
dodicesima benedizione:
“Che per gli apostati non vi sia
speranza; sradica prontamente ai nostri giorni
il dominio dell’usurpazione, e periscano in un
istante i Cristiani (nôserîm)
e gli eretici (minim): siano cancellati
dal libro della vita e non siano iscritti con
i giusti. Benedetto sei tu, Signore, che schiacci
gli arroganti”.
Che i Giudei maledicessero i Cristiani
nella preghiera, è testimoniato anche da Giustino,
Girolamo ed Epifanio; Giustino, in particolare,
rinfaccia ai Giudei di maledire nelle sinagoghe
coloro che si son fatti cristiani. Ma solo la redazione sopra riportata
li nomina chiaramente, mentre le altre a noi pervenute
sono rivolte genericamente ai minim (eretici),
senza altre determinazioni. Certo è che nel termine
minim si possono comprendere anche i Cristiani,
ma non solo. Non è detto poi che esistesse una
sola redazione della preghiera, uguale per tutti,
anche se essa secondo la tradizione talmudica
è originaria di Jamnia, negli anni ’80 del I secolo,
sotto rabbi Gamaliele I.
Le fonti cristiane sembrano riferirsi
ad una maledizione esplicita contro i cristiani;
d’altra parte, la ricostruzione delle varie redazioni
del testo è alquanto difficile, ed è stato messo
in dubbio il valore assoluto del frammento della
genizah.
In conclusione, se è chiaro un intento
di maledizione dei Cristiani nella preghiera giudaica,
non è chiaro quando e dove in essa fu inserito
esplicitamente tale nome.
NOTE AL TESTO
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